Il mio Marocco

Da anni il Marocco mi faceva l’occhiolino presentandosi a me sotto la forma di amici, amiche e persino un affabile fidanzato di questo affascinante e conturbante paese. Finalmente, tra studio, altri viaggi e impegni vari, ho trovato l’occasione di recarmici, alla scoperta di quei luoghi di cui avevo tanto sentito parlare e letto, a partire da uno dei miei libri preferiti: L’alchimista dello scrittore brasiliano Paulo Coelho, che narra le mirabili vicende di un uomo, il giovane pastore Santiago, che intraprende un viaggio mistico partendo dall’Andalusia spagnola, per poi passare da Tangeri, città marocchina, al deserto del Sahara e, infine, all’Egitto. Il Marocco è stato il mio primo paese africano visitato, se escludiamo le vacanze egiziane nel Mar Rosso quando ero piccola, e ha dato l’avvio a una passione che credevo di poter provare solo per l’Asia, quella per l’Africa. Di lì a sei mesi sarei infatti ritornata nel continente più volte, prima per addentrarmi nell’Africa nera, selvaggia e pericolosa della Namibia, dello Zimbabwe, del Botswana e del Sudafrica e poi, con un viaggio più soft, per ritornare in Egitto, questa volta con più calma, per visitare le piramidi e le città che sorgono impavide lungo il fiume Nilo.

Il Marocco mi ha lasciata a bocca aperta, mi ha commossa e scossa, mi ha fatta innamorare di una terra che già mi manca. Dopo venti giorni di viaggio in uno dei paesi più ricchi di storia e cultura dell’Africa del Nord, sul volo di ritorno in Italia ho appuntato sul mio fedele diario il fiume di pensieri e sensazioni che questi luoghi hanno suscitato in me. Ecco ciò che ho scritto:

Sconquassata dalle emozioni, un diluvio, l’anima nuda, ferita. Occhi sbarrati per lo stupore, labbra contratte per la tristezza.

Mi mancheranno tutti quelli che ho conosciuto durante questa sorprendente avventura. Quante risate, quanti pianti, quanto mondo i miei occhi hanno scoperto una volta di più.

La perfezione e la delicatezza delle architetture andaluse ed arabe nelle città imperiali, le antiche rovine di Volubilis, le gole e la valle di Ziz e del Todra, la città di Ait Ben Haddou che, pronunciata da una napoletana (non io) fa proprio morir dal ridere, le affascinanti moschee dalle splendide decorazioni a motivi geometrici e floreali, i turbolenti souq (i mercati) in cui ti perdi in continuazione mentre venditori abilissimi ma fin troppo insolenti ti tirano dietro la loro mercanzia, gli spettacolari riad (le abitazioni tradizionali dotate di cortili interni con fontane e piante), la centenaria foresta di cedri con le sue bertucce dispettose che con una manina mi tirano la gonna e con l’altra cercano di prendermi di mano i pomodorini.

Il disgusto e lo sconvolgente lezzo delle concerie di Fes con i suoi poveri lavoratori che passano la giornata immersi nelle sostanze chimiche fino alle cosce, i bambini ignari del mondo fuori che vivono nei villaggi berberi dove nulla hanno fuorché loro stessi e la loro miseria, il contrasto con hotel di stralusso come il sontuoso Mamounia di Marrakech (in cui sono riuscita ad infiltrarmi piangendo qualche pietosa lacrima davanti alle guardie perplesse) e tutti i maestosi palazzi reali con le vetrate colorate come piacciono a me, l’aria fresca che circola da una stanza all’altra e i limoni che crescono fino al tetto.

I preziosi dirham, la lingua araba con i suoi suoni gutturali e severi, i profumi e i colori vividi delle spezie, i continui piatti roventi di tajine (pietanze di pollo, limone e olive, oppure agnello, prugne e mandorle, cotte in piatti di terracotta) e couscous (pietanza composta da granelli di semola, verdure, carne, uvetta cotti insieme), i tappeti drappeggiati che solo a guardarli ti fanno vivere mille viaggi mentali in Oriente, gli eleganti dromedari nel deserto ed Argentina (un assurdo turista argentino che noi abbiamo soprannominato così) che corre a petto nudo (e che petto nudo!) tra le dune per fare le live su Instagram rischiando di beccarsi un’insolazione e, peggio ancora, di perdere di vista la nostra carovana di dromedari diretta all’accampamento.

Il miele genuino e i grossi datteri scuri e dolcissimi la mattina presto, il thè alla menta versato da altezze improponibili, i nuovi amici Jouad (che è marocchino e gestisce un riad ma ha vissuto tanti anni in Spagna e infatti parla con noi in uno spagnolo impeccabile) e Joshua (che è tedesco e sta viaggiando per il mondo senza scadenza) a Fes, la superba Bouchra che difende il suo paese e intrattiene un dibattito sul femminismo con noi a Meknès, l’autista Samir e la sua giovane moglie che deve stare a casa a badare i figli com’è giusto che sia, a parer suo, gli indomabili nomadi nel deserto del Sahara che quando posano lo sguardo su di te ti trafiggono come se ti avessero scagliato una lancia addosso, i preziosi fossili testimoni di vite fa e risorsa di sostentamento per tante famiglie che mandano i loro figli sul ciglio della strada a venderli ai turisti, i colori sgargianti e freschi dei tessuti, il nero pece del burqa che divora le donne, quello stronzo che mi ha toccato il culo mentre ci guidava a visitare la sua piantagione di caffè, le infinite e maestose Kasbah visitate.

Le cene condivise coi compagni di avventura come quella a ben €20 a testa affumicati dalla testa ai piedi dalle griglie davanti a noi, i venditori di dentiere usate, l’olio di Argan e i miei mille orecchini, la pace e la civiltà di Ifrane e la bolgia infernale di Marrakech, la signora che mi prende la mano prepotentemente e mi dice “regalo regalo io amo Italia” poi pretende soldi per avermi scarabocchiato con l’hennè là dove ancora c’erano i segni di un vecchio tatuaggio (che era decisamente più carino), quello che ci lancia le scimmie addosso e (che novità) pretende denaro anche lui per il grande privilegio concessoci (odio le scimmie!), l’aria di Portogallo ad Essaouira che si sporge sull’oceano impetuoso e le sarde grigliate sul momento in una tiepida giornata a passeggio, lo splendore della capitale Rabat con la torre di Hassan e il mausoleo di Mohammed V, la paura a Casablanca quando ci dovettero scortare fino all’albergo i poliziotti armati, il blu cobalto di Chefchouen e il relax e la lentezza di Ourzazate, città che ospita la Hollywood marocchina.

La lente a contatto persa nel deserto (con mio grandissimo sconforto e livore) e le dodici ore di sonno filato ad Essaouira nel mio bel letto a baldacchino dalle candide lenzuola bianche, i teneri gattini indifesi per le strade affollate, l’assalto dei bambini polverosi alle biro e alle matite come fossero oro e diamanti nei villaggi berberi, il costante fastidio per gli insetti assillanti e il caldo secco, le risate a crepapelle e la musica berbera, i momenti di gioia e quelli di disperazione, i prodigi dell’hammam e del parrucchiere con cui mi sono buttata alle spalle un pezzo di me e delle mie paure, le nuotate nelle straordinarie piscine dei riad e il tappeto di stelle sopra di noi a Zaouiat…

Questo è stato il mio Marocco.

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